LA VIA DEL GHIACCIO


E’ sul tetto del mondo la lunga via della libertà per chi è tibetano e della Cina non ne vuole sapere. Per chi è buddista ma non può avere una foto del Dalai Lama e, in nome delle sue tradizioni, rischia di essere arrestato, torturato o addirittura di sparire.

Le uniche strade possibili attraversano l’Himalaya. In questo caso è il Nangpa La, un passo posto a più cinquemilasettecento metri dove il freddo è pungente, il sole brucia la pelle e l’altitudine spacca la testa. Dove per respirare si deve combattere con la rarefazione dell’aria e con il sangue che riempie le narici.

Questa è la via che hanno percorso Lapsantundu e Lopsanyanzun. Fratello e sorella. Monaco trentacinquenne il primo, monaca trentanovenne la seconda. Otto giorni di cammino da Lhasa a Kangchung, poi altri nove prima di arrivare alla meta, in India, a Dharamsala, dove dimora il Dalai Lama in esilio Tenzin Ghiatzo. Una marcia incessante, di notte e di giorno. Il tutto armati solamente della loro fede, di un po’ di farina d’orzo, di una coperta e di una scatola delle preghiere. Nient’altro. Poco per affrontare l’Himalaya, ancor meno per superare le sue gelide notti.

Lapsantundu e Lopsanyanzun comparvero in una radura a cinque ore di cammino da Lunak e i cinquemila metri erano passati da un pezzo. Si sedettero e iniziarono a sorridere liberandosi da fatiche e tensioni. Tutt’intorno il silenzio e un paesaggio straordinario. “Dalai Lama Good, China no good”, furono le prime parole di Lapsantundu, che aveva anche il piede sinistro malconcio per una serie di vesciche infettate. Erano provati ma felici: il confine era ormai un ricordo, così come il Nangpa La.

Loro non erano gli unici a battere quell’interminabile via, qualche giorno prima tre studenti, anche loro diretti a Dharamsala, ripetevano ciò che tutti i tibetani pensano: “Dalai Lama good, China no good”. Per poi aggiungere: “Noi vogliamo studiare in tibetano, preferiamo andare fino in India piuttosto che in una università a Pechino, vogliamo mantenere viva la nostra cultura”.

Per Lapsantundu e Lopsanyanzun la storia è invece un po’ più complicata. “Noi siamo scappati perché avevamo paura di essere arrestati una seconda volta. Poco tempo fa siamo stati in prigione per venti giorni, una volta liberi abbiamo deciso di partire per Dharamsala”, racconta Lopsanyanzun. E lo hanno fatto da profughi perché il passaporto non ce l’avevano e mai l’avrebbero avuto dopo essere finiti in carcere. “Ci hanno arrestato perché in una manifestazione chiedevamo che fine avesse fatto il mio maestro Chamba Thilè, sparito perché anni fa aveva chiesto che fine aveva fatto il Panchen Lama Ghedun Choekyi Nyima scomparso nel 1995 insieme alla sua famiglia”, racconta Lapsantundu.

In fin dei conti questa è la normalità da quando, nel 1959, l’esercito cinese usò la forza per reprimere gli spiriti indipendentisti tibetani. Da allora, secondo le stime Ufficio per l’Assistenza ai Rifugiati Tibetani, ogni anno circa duemilacinquecento persone fuggono dalla loro terra attraverso i passi himalayani. Spesso viaggiano con i commercianti poi, giunti nei pressi dei check point, si staccano in attesa dell’oscurità. “L’unico modo per attraversare il confine è farlo di notte”, spiega infatti Lopsanyanzun.

La discesa verso Namche Bazaar proseguì in silenzio, vietato farsi sentire e, soprattutto, sprecare energie. La strada da percorrere era molta, come la stanchezza. Il piede di Lapsantundu peggiorava ad ogni passo, ma mai un lamento o una smorfia di dolore. Prima della città si riuscì a farlo visitare in un ospedale. Una medicazione e tre giorni di riposo, possibilmente ben nascosti, perché se il pericolo cinese era scampato, ora si presentava quello nepalese. Essere beccati dalla polizia locale significa pagare una multa da ventisettemila rupie, che sono più o meno trecentoquindici euro, quindi cosa impossibile, oppure farsi fino a tre anni di carcere. Dopo tre giorni insieme e prima di Namchee Bazar, Lapsantundu e Lopsanyanzun se ne andarono per la loro strada, chi ha documentato questa storia invece tornò a Katmandu.

Nel campo profughi della capitale nepalese c’erano decine di persone unite dalla fedeltà al Dalai Lama e con un sogno nel cassetto: riaverlo in Tibet, pur temendo che il suo ritorno sarebbe coinciso con il suo assassinio. Molti di loro fuggivano dalla repressione, altri per cercare un domani migliore. Di sicuro non scappano dal Tibet quei pochi che invece lavorano con i cinesi e nutrono la speranza di poter migliorare il proprio tenore di vita in virtù della ricostruzione avviata a Lhasa.

“Io ho deciso di andare via dal Tibet con la mia famiglia per cercare una nuova vita, migliore”, dice Tsering, trentacinquenne preoccupato per il futuro del suo piccolo figlio. Poi ci sono Dawa, studente di vent’anni, e i suoi tre amici, che hanno altre ragioni: “Andremo a Dharamsala per continuare gli studi in tibetano. A casa ci torneremo quando potremo, ma solo per andare a trovare i nostri genitori”, proprio come i tre studenti incontrati nei pressi del Nangpa La. Solo loro ebbero il coraggio di raccontarsi, gli altri avevano paura di quel che poteva succedere loro, anche fuori dalla Cina.

Nel frattempo le fughe continuano e le persecuzioni pure. E’ la stessa storia ogni anno, qualcuno ce l’ha fatta, altri no. Chi sfiancato dalla fatica e dalle difficoltà, chi, più sfortunato, catturato: come i diciotto arrestati proprio nei pressi del Nangpa La lo scorso 30 novembre. Lapsantundu e Lopsanyanzun ce l’hanno fatta, sono in Nepal, faranno tappa a Kathmandu e poi via, giù nel Terai per raggiungere le centocinquantamila persone della comunità buddista tibetana che sta in India.

Questa è la storia di un dramma che si consuma nei pressi delle vie del trekking, quelle battute dai turisti che puntano le vette senza accorgersi di quel che accade intorno. Una storia già sentita, perché anche la guerra civile qui in Nepal si combatte così, con l’esercito e i maoisti pronti a scannarsi, ma senza disturbare gli occidentali carichi di dollari.

                                                                                                         Fabio Gibellino

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